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domenica 20 settembre 2009

(1962) Era un ragazzo inglese con, con i capelli leggermente più lunghi del normale





Allora mi occupavo molto di jazz e la musica leggera la sentivo con la puzza sotto al naso, anche se sotto sotto cantavo e schitarravo non tutto, ma di tutto, tutto il giorno, comprese le canzoni napoletane di Peppino di Capri. Un piccolo occhio di riguardo lo avevo ufficialmente per il rock and roll, soprattutto quello “nero” di Fats Domino o di Chuck Berry.
(fu in quel periodo che conobbi un ragazzo inglese)….. mi disse che a Londra era nato un gruppo di rock and roll di cui tutti parlavano, io stavo quasi sputandogli sulle scarpe, in senso di disprezzo. Capirai. A me allora mi chiamavano “swing” perché dicevo sempre che “non significa un cazzo se non c’è swing” (libera traduzione di un brano del grande Duke Ellington) ed ero il solo nell’arco di due chilometri quadrati a saper battere le mani in levare. E figurati allora se gli inglesi mi avrebbero fregato, buoni com’erano solo a far cantare tipi come Cliff Richard o gli Shadows, insomma “robbetta” bianca. Così quando quello sbarbatello inglese tirò fuori dalla valigia un quarantacinque giri leggermente più sporco del normale e mi fece capire che avrebbe voluto che “violasse” il mio prezioso Lesaphon a valigetta dove i bassi erano insuperabili quando si chiudeva il coperchio, perché rimbombavano, lo lasciai fare, anzi lo aiutai pure. Era un disco appunto di questi Beatles non me ne ricordo il titolo. Perché? Beh perché avevo pienamente ragione io. Questi inglesi facevano schifo, in pratica facevano lo “ye ye” (il genere che facevano allora Rita Pavone o Silvie Vartan) con qualche accordo di blues rubacchiato come al solito, ai vecchi maestri neri. E quello pure si divertiva e portava il tempo!!! Naturalmente in battere come quei ragazzi che si vedevano alla televisione con Walter Chiari a “fare i giovani più giovani, l’esercito del surf “. Tutto sbagliato, caro il mio inglesotto, questi “bitls” non sono nessuno!
Stavo per estrarre dalla busta dell’extended play “When my dreamboat comes home” di Fats Domino per farglielo ascoltare con regale magnanimità quando “quello” si mise a ballare. Fu allora appunto che cominciarono gli anni sessanta. Era il sessantadue…. “Quello” ballava da solo, agitandosi tutto, facendo strani passi mai visti prima e muovendo anche le mani e le braccia. Ma non era il surf, era una “cosa” completamente diversa. Allora, proprio in quel momento, pensai la tremenda fatidica frase, il vero segnale di quando non sei più la “nuova generazione” ma diventi “quella degli anni Cinquanta” “la precedente”: “Ma insomma, che diavolo di modo di ballare è mai questo? Noi sì che ci sapevamo divertire!"

Renzo Arbore
estratto da "Il sogno degli anni '60" (Walter Veltroni - Savelli Editori, 1981)

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