Ogni giorno scendono sotto le tettoie nere di fumo e di nebbia della stazione centrale (di Milano), delle ragazze smunte, dall'andatura incerta, come se non si reggessero bene sulle gambe, e lo sguardo un po' impaurito. Sono le ragazze madri degli anni sessanta, le sprovvedute vittime delle più violente correnti migratorie e della rapida scomparsa della civiltà agricola cui appartenevano. Le loro storie sono quasi sempre uguali: Anna C., di Santa Maria Capua Vetere scende dal treno di Zurigo. Dopo la prima settimana che era in Svizzera a fare la guardarobiera è rimasta senza casa. Non aveva i soldi per pagare l'albergo, le suore erano già piene, prima di riuscire a trovare un'altra casa sono passati più di venti giorni, durante i quali ha dormito dappertutto, quasi con chi voleva, purchè avesse un letto. Quando si è accorta di essere in cinta, le autorità svizzere l'hanno espulsa, e adesso scende a Milano, e assicura che al paese non tornerà mai più, Carmela E. invece viene da un paese vicino a Palermo: è rimasta incinta dopo che i suoi hanno venduto il podere e sono andati ad abitare in città, dove cercano di avviare un negozio di frutta. È venuta a Milano perchè teme le reazioni del padre, ha vergogna della sua condizione e non può affrontare la convivenza con la madre e i commenti dei vicini.
Sono paure e vergogne vecchie di secoli, frutto di antichi pregiudizi di un paese vecchissimo.
Le ragazze madri, emergono quotidianamente dalle funebri scalee assiro-babilonesi della stazione di Milano,[…] vengono perchè hanno fiducia nei grattacieli, in cui vedono un simbolo di ricchezza e di modernità, pensando confusamente che in un paese moderno e ricco la sorte che le aspetta deve essere differente da quella che la fantasia popolare tradizionalmente riservava loro (la segregazione sociale, il biasimo delle autorità, l'inevitabile abbandono del figlio). Ma una volta raggiunta Milano cominciano i primi disinganni.
[…]Claudio Risé
(“L'Espresso” - 29 dicembre 1963)
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