[...] è alla fine della stagione della Signora è da buttare (1968) (un vero e proprio record d'incassi) che maturammo la scelta di lasciare le strutture consuete del teatro ufficiale: ci eravamo resi conto che, a parte la reazione becera di qualche reazionario fra i più ottusi, la grande borghesia, alle nostre "sculacciate", reagiva quasi con piacere. Masochisti? No, eravamo diventati, senza essercene resi conto, i sollecitatori del loro ruttino digestivo. Il nostro "fustigare" accentuava la loro circolazione sanguigna, come le nerbate di betulla dopo la sauna ristoratrice.
Insomma, eravamo diventati i giullari della borghesia grassa e intelligente. Questa borghesia accettava che noi la criticassimo anche in maniera spietata attraverso la satira e il grottesco, ma a condizione che la denuncia dei suoi "vizi" si esaurisse dentro le sue strutture, gestite dal suo potere. Un esempio di questa logica è stata la nostra partecipazione a Canzonissima: qualche mese prima, sul secondo canale (da poco in funzione e privilegio delle sole classi abbienti), era andato in scena uno spettacolo nostro che aveva per titolo Chi l'ha visto? In quell'occasione ci avevano permesso di fare una satira a sfondo politico-sociale di una violenza piuttosto inconsueta per la televisione. Passò tutto senza grandi intoppi, anzi le critiche furono del tutto positive e fummo applauditi "vivamente" da quel pubblico "selezionato". Ma quando riprendemmo gli stessi discorsi satirici davanti ad un pubblico di oltre 20 milioni di spettatori nella trasmissione più popolare dell'anno, per l'appunto Canzonissima, ci fu il finimondo: i giornali (gli stessi che nella precedente emissione si erano prodigati in applausi) si scatenarono in veri e propri linciaggi. "È un'infamia, -urlavano, - dare in pasto simili scellerataggini da bassa propaganda politica ad un pubblico tanto sprovveduto e così facilmente influenzabile come è la gran massa televisiva". Quindi, sollecitati dai comitati civici, dai centri di potere più retrivi, ecco che i dirigenti televisivi ci fecero piovere addosso tagli e divieti di una pesantezza inimmaginabile Era il massacro dei testi. Era il ritorno alla censura di marca scelbiana. Fummo così costretti ad abbandonare clamorosamente la trasmissione. Preferimmo affrontare i quattro processi. [...]
È il solito discorso: i grandi re, i potenti, che certe cose le capiscono, hanno sempre pagato buffoni di corte perchè recitassero, davanti a un pubblico di cortigiani d'alto livello, filastrocche cariche di umori satirici e allusioni, anche irriverenti, al loro potere, alle loro ingiustizie.
Così i cortigiani potevano ben gridare stupefatti: "Che re democratico! Egli ha la gran forza morale di ridere di se stesso!" Ma sappiamo bene che, se quel buffone avesse avuto l'impudenza di uscire dalla corte per andare a recitare e a cantare quelle stesse satire in piazza davanti ai contadini, agli sfruttati, agli operai, allora il re e i suoi leccapiedi l'avrebbero subito pagato di ben altra moneta. Perché ci si può prendere gioco del potere, ma se lo fai all'esterno ti bruciano!
[...]
Franca Rame
(testimonianza apparsa su "Le commedie di Dario Fo" - Giulio Einaudi editore, 1975)
(testimonianza apparsa su "Le commedie di Dario Fo" - Giulio Einaudi editore, 1975)
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