La colpa è di tutti noi se Marilyn è finita così
.Non era attrezzata per sopportare quel personaggio sconvolgente e fatale in cui l'avevano incarnata e di cui essa non era in grado di comprendere la falsità
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Non so quale effetto avrà provocato sui miei lettori il baccano che sulla stampa di tutto il mondo ha fatto il suicidio di Marilyn Monroe. Ma confesso che a me ha dato un certo fastidio. Non voglio avanzare critiche verso nessuno, intendiamoci: la protagonista era talmente sotto i riflettori della pubblicità che la sua morte assumeva per forza carattere di “sensazione”, specie per il tragico modo in cui è avvenuta. E nemmeno vorrei mancare di rispetto a questa povera creatura, che ha saldato così drasticamente i suoi conti con la vita. Qualcuno forse troverà da ridire sul fatto che, in confronto a quella di Marilyn, la scomparsa di Hemingway, anche lui suicida, rappresentò per l’umanità una perdita molto più grave, eppure suscitò molto meno scalpore. […]
[…] ciò che mi ha dato fastidio, nel caso di Marilyn, non è stato il rumore che il suo suicidio ha sollevato, ma la sua qualità, cioè il tono e il significato dei commenti che le sono stati dedicati.[…]
Secondo me, le campane a morto per Marilyn non andavano suonate a stormo, ma anzi con molta discrezione, ad ammonimento contro una certa anarchia di valori che spesso volge a tragedia la sorte stessa di coloro che ne sembrano i beneficiari. E bisogna anzitutto dire questo: che della fine di questa povera donna siamo responsabili tutti noi, che l’abbiamo mitizzata fino a renderla irriconoscibile a se stessa. Tutto, dell’esistenza di Marilyn, ci dimostra ch’essa era una ragazzetta qualunque, che il caso sbalestrò in mezzo a cose e vicende più grandi di lei senza averle dato nemmeno i mezzi per misurarle. Non aveva ricevuto educazione perché veniva da una famiglia povera e squinternata. E infatti una delle esperienze che più dovettero sconvolgerla fu il matrimonio con un intellettuale come Miller, del quale subì il fascino senza capirlo e senza mai riuscire a penetrare nel suo mondo e a parteciparvi.
Forse era nata per restare la moglie del poliziotto che aveva sposato in prime nozze. Comunque non era attrezzata per sopportare quel personaggio sconvolgente e fatale in cui poi la incarnarono e di cui essa non era in grado di comprendere la falsità.
Abbagliata dal successo, essa non si accorse di entrare in un ingranaggio a cui non le sarebbe stato più possibile sottrarsi, e da allora in poi fu costretta a “recitare” la propria vita: operazione che richiede un vigile e distaccato senso critico, l’esatta coscienza dei limiti fra il reale e l’irreale, che solo possiedono i caratteri forti e disciplinati.
Più che a lacrime d’intenerimento, a laudi esclamative, a lamenti e singulti, era a queste riflessioni che doveva fornire pretesto il cadavere di Marilyn, irrefutabile testimonianza della crudeltà della vita moderna, così progredita in senso collettivo e così incurante dei destini individuali. Essa riduce sempre più i margini di autonomia delle creature che vi partecipano, sempre più rode il loro diritto ad essere se stesse. E se quello di Marilyn è stato, per il mestiere che faceva, un caso-limite, non illudiamoci: anche noi incontriamo sempre più difficoltà a salvare una parte di noi stessi, a difendere un minimo d’indipendenza dai potenti ingranaggi in cui ci troviamo coinvolti. La nostra giornata è sempre più condizionata dalla fabbrica, dall’ufficio, dalla moda, dalle idee, dai gusti degli altri. Tutti ci “conformiamo”. Tutti abbiamo paura ad essere qualcosa di diverso: ad essere noi stessi. Tutti ci troviamo implicati in cose più grandi di noi, di cui spesso non riusciamo nemmeno ad afferrare la tecnica e la finalità. […]
È questo, credo, che ha provocato la tragica fine di Marilyn e la rende così patetica ai nostri occhi. Forse questa povera figliola è ridiventata se stessa e ha compiuto un gesto veramente suo solo nel momento in cui ha stappato quel tubetto di sonnifero. Mettiamo da parte le parole di occasione, e in tutta confidenza diciamoci anche che la nostra pietà non nasce dal fatto ch’essa era una grande attrice, ma anzi da quello, molto più compassionevole, che non era mai riuscita a diventarlo, perché le grandi attrici sanno dove finisce la “recita” e dove comincia la vita. Marilyn lo ignorava. Farebbero bene a rifletterci soprattutto le ragazze che se la sono sempre proposta come modello.
Indro Montanelli
(la stanza di Montanelli – “Domenica del Corriere” 26 agosto)
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[…] ciò che mi ha dato fastidio, nel caso di Marilyn, non è stato il rumore che il suo suicidio ha sollevato, ma la sua qualità, cioè il tono e il significato dei commenti che le sono stati dedicati.[…]
Secondo me, le campane a morto per Marilyn non andavano suonate a stormo, ma anzi con molta discrezione, ad ammonimento contro una certa anarchia di valori che spesso volge a tragedia la sorte stessa di coloro che ne sembrano i beneficiari. E bisogna anzitutto dire questo: che della fine di questa povera donna siamo responsabili tutti noi, che l’abbiamo mitizzata fino a renderla irriconoscibile a se stessa. Tutto, dell’esistenza di Marilyn, ci dimostra ch’essa era una ragazzetta qualunque, che il caso sbalestrò in mezzo a cose e vicende più grandi di lei senza averle dato nemmeno i mezzi per misurarle. Non aveva ricevuto educazione perché veniva da una famiglia povera e squinternata. E infatti una delle esperienze che più dovettero sconvolgerla fu il matrimonio con un intellettuale come Miller, del quale subì il fascino senza capirlo e senza mai riuscire a penetrare nel suo mondo e a parteciparvi.
Forse era nata per restare la moglie del poliziotto che aveva sposato in prime nozze. Comunque non era attrezzata per sopportare quel personaggio sconvolgente e fatale in cui poi la incarnarono e di cui essa non era in grado di comprendere la falsità.
Abbagliata dal successo, essa non si accorse di entrare in un ingranaggio a cui non le sarebbe stato più possibile sottrarsi, e da allora in poi fu costretta a “recitare” la propria vita: operazione che richiede un vigile e distaccato senso critico, l’esatta coscienza dei limiti fra il reale e l’irreale, che solo possiedono i caratteri forti e disciplinati.
Più che a lacrime d’intenerimento, a laudi esclamative, a lamenti e singulti, era a queste riflessioni che doveva fornire pretesto il cadavere di Marilyn, irrefutabile testimonianza della crudeltà della vita moderna, così progredita in senso collettivo e così incurante dei destini individuali. Essa riduce sempre più i margini di autonomia delle creature che vi partecipano, sempre più rode il loro diritto ad essere se stesse. E se quello di Marilyn è stato, per il mestiere che faceva, un caso-limite, non illudiamoci: anche noi incontriamo sempre più difficoltà a salvare una parte di noi stessi, a difendere un minimo d’indipendenza dai potenti ingranaggi in cui ci troviamo coinvolti. La nostra giornata è sempre più condizionata dalla fabbrica, dall’ufficio, dalla moda, dalle idee, dai gusti degli altri. Tutti ci “conformiamo”. Tutti abbiamo paura ad essere qualcosa di diverso: ad essere noi stessi. Tutti ci troviamo implicati in cose più grandi di noi, di cui spesso non riusciamo nemmeno ad afferrare la tecnica e la finalità. […]
È questo, credo, che ha provocato la tragica fine di Marilyn e la rende così patetica ai nostri occhi. Forse questa povera figliola è ridiventata se stessa e ha compiuto un gesto veramente suo solo nel momento in cui ha stappato quel tubetto di sonnifero. Mettiamo da parte le parole di occasione, e in tutta confidenza diciamoci anche che la nostra pietà non nasce dal fatto ch’essa era una grande attrice, ma anzi da quello, molto più compassionevole, che non era mai riuscita a diventarlo, perché le grandi attrici sanno dove finisce la “recita” e dove comincia la vita. Marilyn lo ignorava. Farebbero bene a rifletterci soprattutto le ragazze che se la sono sempre proposta come modello.
Indro Montanelli
(la stanza di Montanelli – “Domenica del Corriere” 26 agosto)
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