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domenica 7 novembre 2010

(1963) La Tragedia del Vajont



Mancano pochi minuti alle undici e a quell’ora la gente di montagna ha già spento le luci.    Anche in autunno la sveglia suona presto al mattino, qui vive gente laboriosa, caratteri forti, forse duri, rocce, si dice, proprio come le montagne che circondano le loro case, quelle costruite sotto il monte Toc, che da queste parti vuol dire “pezzo”, e lungo il Vajont, che tradotto dal ladino significa “va giù”. Ed è stata proprio una frana che dalle pendici del Toc, alle 22.39 del 9 ottobre si è rovesciata nel bacino artificiale sottostante: 2700 metri cubi di rocce e detriti portati a valle con un boato da far paura. Due ondate la conseguenza di quella frana: la prima, verso la vallata del Vajont, ha cancellato le frazioni di Frasègn, Pineta, Prada, Ceva, Cristo, Marzana, San Martino e Le Spesse.   La seconda è arrivata alle case di Casso.     A Longarone l’onda si è divisa: una parte verso il letto del Piave, l’altra incontro al mare, continuando a distruggere tutto quanto incontrava.     Bilancio 1917 morti, più o meno l’ 80 per cento di donne, bambini, uomini che in quell’angolo d’Italia vivevano.     È stato detto che nemmeno la bomba atomica sganciata su Hiroshima è paragonabile a quell’onda d’urto.    Una donna scampata al disastro lo racconta così: “Avevo spento da poco la luce e quando ho sentito che la terra tremava, da dietro le imposte fischiava un gran vento e vedevo le luci della strada che si spegnevano. D’istinto sono corsa a prendere dal letto i miei bambini che dormivano, poi l’acqua è entrata, mi ha sballottata di qua e di là e mi sono ritrovata sopra un pino. La mia bambina è stata trovata intorno a casa, il maschietto verso Belluno, mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichina”.
Ricorda il parroco: “C’era un rumore che cresceva, così mi sono affacciato alla finestra e c’era anche un gran bagliore, poi mi hanno detto che quello era il cortocircuito dei trasformatori. Così ho visto una colonna d’acqua che buttava giù le case ed è arrivata in cima al mio campanile”.
Ancora un testimone: “Sono arrivato a Longarone dopo un’ora che il Toc era finito nel lago al di là della diga: c’era qualche ambulanza, i vigili del fuoco, i carabinieri e la Stradale.   Di Longarone restavano soltanto le macerie e pensavamo che ci fossero centinaia di feriti.   Un soldato gridava forte in un microfono che tutti i paesi suonassero le campane, che la gente scappasse. Camminavamo nel fango, tra calcinacci, pezzi di legno, in un silenzio surreale. Passammo davanti al cinema e ci trovammo come in un paesaggio lunare: davanti a noi c’era il vuoto. Capimmo che il paese era sparito”. […]
[…] (rimaneva solo) il muraglione della diga assassina, quella diga voluta dagli uomini nonostante in molti, negli anni precedenti, avessero avvertito, con l’autorità di scienziati, che lì una diga sarebbe stata un pericolo per la valle e i suoi abitanti, visto che il profilo geologico non era adatto. […]
Le vittime sono state seppellite in fretta, anche se poche erano state identificate. Spianato dalle ruspe, un grande spazio a Fortogna è diventato uno dei più grandi cimiteri del nostro paese: tante lunghe fosse contrassegnate da un numero. […]

Da “L’ITALIA del ‘900 (1960-1963)” di Enzo Biagi – Edizione speciale per il Corriere della Sera, Rizzoli - 2007

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