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mercoledì 16 settembre 2009

(1953) - Lo Scooter, macchina naturale (Domenico Rea)



… un sogno di ragazzo, che intuiva che mai avrebbe potuto possedere una moto o un’auto.
Covava in me questa brama fin da quando ebbi un primo monopattino di legno colorato, che, presto, si dimostrò molto difettoso. Le ruote di legno, dopo poco, si consumavano come i tacchi delle scarpe e il monopattino perdeva di grazia e di agilità. Diventava uno strumento zoppicante. Facevo una grande fatica a mandarlo avanti, ma già allora la fatica si trasformava nell’energia di un immaginario motore che mi entusiasmava. Era però tuttavia un gioco di scarsa soddisfazione. Non avevo strade aperte dinanzi, ma i limiti di un esiguo terrazzo. Ogni due metri, l’illusione di viaggiare si scontrava contro i muri del parapetto e soltanto la mia fantasia di fanciullo poteva abbattersi e rinascere e frantumare gli ostacoli.
In seguito, col mio definitivo arruolamento nell’esercito dei selvaggi ragazzi di strada, potetti gustare le incredibili gioie del monopattino, minuscolo, grazioso e fragile anticipatore del robusto scooter.
I monelli, come tanti altri giocattoli, il monopattino se lo dovevano costruire con le proprie mani e con un abile, lungo e intelligente lavoro. Essi disprezzavano il monopattino fabbricato dagli adulti perché non poteva dare le soddisfazioni paragonabili a quelle che un ragazzo è in grado d’inventarsi con una macchina di sua costruzione, giacchè di vere e proprie macchine si trattava.
Si dovevano scegliere due robuste e sottili tavolette di legno –che veniva rubato alle segherie. La più larga serviva da pedana, la più stretta da blocco unico per la ruota anteriore e per lo sterzo. L’altra importante novità era nella scelta delle ruote. Non si adoperavano le rotelle di legno, che l’attrito con l’asse bruciava e non faceva scorrere. Esse erano sostituite dai cuscinetti a sfere, che permettevano una velocità decupla e una conseguente scorrevolezza innanzi alla quale il monopattino di legno era un coso antidiluviano. I cuscinetti inoltre erano meccanismi veri, appartenuti a macchine vere. Essi venivano ricoperti da due minuscoli parafanghi di stagno. Sotto il manubrio s’incastrava un porta-lumino come fanale. Sopra, un gancio a cui si attaccava uno spago fortissimo e che, tirato, azionava un rudimentale freno, posto sulla rota anteriore. Sulla pedana s’inchiodava un barattolo di stagno pieno di sapone molle per ingrassare i cuscinetti e gli assi, anche se non ce n’era bisogno. E poi venivano gli abbellimenti –fiocchi, nastri, campanelli- e gli accessori –tromba a polpetta, sedile per uno o per due passeggeri. Più quel monopattino era carico d’immaginari strumenti, più era costellato di finimenti scintillanti di stagno, più era potente e veloce per la nostra fantasia.
A grandi schiere ci si metteva infine in marcia in cerca delle più lunghe e faticose salite de paese. Si dava il “via” e tutti i ragazzi cominciavano a muoversi rombando con la… bocca, imitando il rumore di un motore a scoppio in partenza; e quel rombo orale, accoppiato a quello naturale del rotolare dei cuscinetti, creava una atmosfera selvaggiamente sportiva. Dalla salita era inebriante discendere alla pianura senza fatica, seduti, con le mani allo sterzo, avvitandolo da una parte per dare il gas, e imitando le trombe e il rumore di un motore in corsa.
Risulta chiaro che non si voleva imitare la silenziosa bicicletta, e nemmeno la moto –troppo ferina e al difuori della nostra immaginazione- ma una macchina che doveva trovare una netta somiglianza con lo scooter, col quale doveva avere in comune le due piccole ruote e il fondamentale telaio “aperto a trave bassa”. Lo scooter dunque da tempo giaceva nell’inconscienza degli uomini;…..




estratto da "LE VIE D'ITALIA" [aprile, 1953]

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